di Paolo Pivetti
Se Papa Giulio II avesse fatto l’”analisi costi-benefici”, certamente non avrebbe investito tutti quei soldi per affidare a Michelangelo l’affresco della Cappella Sistina. E, qualche secolo dopo di lui, nessuno si sarebbe sognato di erigere nel centro di Parigi l’”inutile” Tour Eiffel. E certamente nemmeno Gian Galeazzo Visconti, nel lontano Trecento, si sarebbe messo nell’impresa di costruire il Duomo di Milano, i cui “costi” sarebbero stati poi ereditati dai suoi successori, fino ad arrivare a Napoleone, che pure ci mise del suo, e su su fino ai nostri giorni in cui la Veneranda Fabbrica del Duomo è un bel “costo” per la collettività.
Anche il concetto “analisi costi-benefici” è uno dei ritornelli politici dei nostri tempi, messo in circolo da chi ci ha già annunciato di aver “abolito la povertà”, e ci ha preannunciato che il 2019 sarà un anno “bellissimo”.
Rimanendo, come sempre, all’analisi linguistica, bella l’evoluzione politica da mezzo secolo a questa parte: dal sogno rivoluzionario dell’”immaginazione al potere”, reperto archeologico sessantottino, allora ispirato dal venerato filosofo Herbert Mancuse, all’”incompetenza al potere” piombata oggi sui nostri capi come eredità dei “vaffa-days”, ad opera di un Ministro dei Trasporti che non sa se il Tunnel del Brennero è già in funzione o non esiste ancora.
Questi e tanti altri stimoli dell’attualità generano, più che scoramento, un’intensa nostalgia. Nostalgia per quei tempi in cui chi faceva politica parlava il “politichese”, cioè il linguaggio specialistico di chi si occupava seriamente di politica: una forma lessicale che, in un’epoca di “competenza”, viaggiava parallelamente al lessico medico per i medici, al lessico burocratico per i burocrati, giudiziario per i giudici, eccetera.
Ripensiamo a capolavori del “politichese” come le famosissime “convergenze parallele” dove la forza dell’ossìmoro, cioè dell’accostamento nella stessa espressione di due concetti tra loro contraddittori, sembra rendere possibile l’impossibile, grazie alla virtù politica della mediazione; o alla raffinatissima “strategia dell’attenzione”, che contiene in sintesi un intero programma di svolta politica verso coraggiose, nuove alleanze. Quelle che per anni e decenni la demagogia ha presentato come astruse formule per “non far capire” ciò che stava succedendo erano al contrario coraggiose, geniali creazioni. E di Aldo Moro, che poi la “strategia dell’attenzione” l’avrebbe pagata con la vita, possiamo ben dire che sia stato un genio, oltre che della politica, anche della creazione linguistica.
Cose difficili da capire nei nostri tempi in cui anche illustri autorità linguistiche sdoganano l’uso di espressioni come “vado a scendere il cane in strada”.