di Ilaria Li Vigni
È indispensabile che il giudice di merito verifichi la concreta offensività della condotta, riferita alla idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante.
Questo uno dei principi messi a fuoco dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione con la pronuncia del 30 maggio (sentenza n. 30475/19) in tema di vendita di prodotti derivanti dalla canapa in relazione a quanto descritto dalla legge n. 242/2016, «Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa».
Sentenza con cui è stato dato uno stop definitivo alla possibilità di vendere al pubblico foglie, infiorescenze, olio e resina derivati dalla «cannabis light». Ma andiamo con ordine.
La legge n. 242/2016 è volta a promuovere la coltivazione agroindustriale di canapa delle varietà ammesse (cannabis sativa L.), coltivazione che beneficia dei contributi dell’Unione europea, ove il coltivatore dimostri di avere impiantato sementi ammesse.
Si tratta di coltivazione consentita senza necessità di autorizzazione, ma dalla stessa possono essere ottenuti esclusivamente i prodotti tassativamente indicati dalla legge n. 242/2016, art. 2, comma 2, e dunque:
a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;
b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;
c) materiale destinato alla pratica del sovescio;
d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
g) coltivazioni destinate al florovivaismo.
Esemplificando, ad avviso delle Sezioni Unite possono ottenersi fibre e carburanti, ma non hashish e marijuana.
Pertanto, la commercializzazione di foglie, infiorescenze, olio e resina, derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa L., integra la fattispecie di reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, dpr 309/90, ossia vendita, cessione, distribuzione, commercio, consegna, detenzione e altre attività di messa in circolazione di sostanze stupefacenti o psicotrope.
La commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra il reato di cui si è detto anche se il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate all’art. 4, commi 5 e 7 della legge n. 242/2016 (0,6 per cento).
L’art. 73, citato, infatti, incrimina la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivati della cannabis, senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di THC che deve essere presente in tali prodotti.
Ciò detto, le Sezioni unite hanno, però, inteso ricordare l’insegnamento giurisprudenziale che da tempo valorizza il principio di concreta offensività della condotta, nella verifica della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti oggetto di cessione.
La sentenza ha rilevato che, rispetto al reato di cui all’art. 73 del dpr 309/90, non rileva il superamento della dose media giornaliera, ma la circostanza che la sostanza ceduta abbia effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacente.
In particolare, i giudici hanno affermato come sia indispensabile che il giudice di merito verifichi la concreta offensività della condotta, riferita alla idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante.
Nel ribadire i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, nell’ambito delle condotte di cessione di sostanze stupefacenti, le Sezioni Unite osservano che ciò che occorre verificare non è la percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza ceduta, bensì l’idoneità della medesima sostanza a produrre, in concreto, un effetto drogante.
Si tratta di coordinate interpretative di rilievo nella materia in esame, posto che la cessione illecita riguarda infiorescenze e altri derivati ottenuti dalla coltivazione della richiamata varietà di canapa, che si caratterizza per il basso contenuto di THC.
Dunque, anche se, secondo il vigente quadro normativo, l’offerta a qualsiasi titolo, la distribuzione e la messa in vendita dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L. integrano la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 73, dpr 309/90, ciò nondimeno si impone l’effettuazione della puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all’attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi.
In definitiva, sulla base della sentenza non sembra esservi più alcun dubbio sul divieto di commercializzazione di foglie, infiorescenze, olio e resina, derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa L., che integra la fattispecie del reato di vendita, cessione, distribuzione, commercio, consegna, detenzione e altre attività di messa in circolazione di sostanze stupefacenti o psicotrope, anche qualora il contenuto di THC sia inferiore alla concentrazione dello 0,6 per cento.
In caso di giudizio sulla sussistenza del reato di cessione di stupefacenti, però, il giudice di merito dovrà valutare l’idoneità della sostanza a produrre, in concreto, un effetto drogante, specie trattandosi di cessione illecita che riguarda infiorescenze e altri derivati ottenuti dalla coltivazione della richiamata varietà di canapa, che si caratterizza per il basso contenuto di THC.
Inoltre, il giudice di merito potrebbe concludere il suo giudizio anche con l’esclusione della colpevolezza dell’imputato, vista l’oscurità del testo legislativo e l’atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari (che hanno deciso su casi analoghi in modo diverso e a volte anche opposto).
Insomma, come si evince da questa disamina, molti sono ancora i punti dubbi in tale materia e vedremo, nel corso dei prossimi mesi, come tale decisione sarà concretamente recepita dai tribunali di merito.